giovedì 19 agosto 2010

ora questo scritto è la mia bussola

Mi si consente un incipit quasi blasfemo? Quando mi è stato prospettato il tema – affascinante e intrigante – del Te Deum, il mio pensiero è subito volato al finale del I Atto della Tosca di Puccini. Nella Chiesa romana di Sant’Andrea della Valle, il coro intona, appunto, un Te Deum di ringraziamento (per la repressione della Repubblica romana del 1799) e il terribile barone Scarpia coltiva il suo sogno: «L’uno alla forca/ l’altra tra le mie braccia». Vuol dire: il giacobino Cavaradossi finalmente morto ammazzato, e la sua amante, la bella (e religioso-superstiziosa) Floria Tosca, finalmente concessa alla «foia libertina» del potente inviato del Regno delle due Sicilie. È una scena di massima ambiguità, ai limiti della perversione, in cui sacro e profano, eros e agape, potere e religione si contaminano e si mischiano, fino a diventare indistinguibili. Infatti, nel clou musicale della scena, Scarpia quasi grida: «Tosca, mi fai dimenticare Iddio!». Ci vuole un baritono molto in voce, a questo punto, che faccia sentir bene una tale confessione – davvero blasfema – e non si faccia sommergere dall’esplosione corale del Te Deum stesso. Ecco, in quanto melomane inguaribile, ho gioito alla notizia che Riccardo Muti dirigerà, dalla fine del 2010, il Teatro dell’Opera di Roma e comunque ne eleverà al massimo il livello musicale e artistico. Chi devo ringraziare? Presumibilmente il sindaco Alemanno, che per tutto il resto della sua attività non mi è poi così congeniale. Ma ringrazio di cuore, anche e soprattutto, Riccardo Muti per aver accettato un impegno – una sfida – così ardua: provare a fare della città di Roma, così pigra, così spiritualmente inerte, così in fondo antiromantica, un luogo in cui l’opera lirica e la musica ci siano sul serio. No, non mi voglio consolare “co l’ajetto”, come mi direbbe un “romanaccio” qualunque, uno di quelli che incontro tutti i giorni al bar sotto casa e mimano, al ribasso, i sonetti del Belli. Per me la consolazione (e il piacere) che la musica può dare è assoluta, esistenziale, consustanziale. Non ho aspettato la sconfitta politica (e culturale) per coltivarla, amarla e farmene invadere – nel bel mezzo del movimento del ’68, al termine di assemblee schiumanti, correvo nella mia stanza per ascoltare la Quarta di Mahler o il duetto Norma/Adalgisa – o l’“Elektra” di Richard Strauss (erano tempi di “scoperte”). E così facevo da bambina, e così continuo a fare nell’età (chiamiamola così per eufemistica voluttà) matura.
E poi? Poi, in questo “annus horribilis”, dal punto di vista politico e sociale, che è stato per me il 2009, devo ringraziare tutti coloro che, a cominciare dallo splendido compagno della mia vita, mi hanno dato la voglia di continuare a vivere tutto sommato dignitosamente. Amiche e amici, vecchi compagni e interlocutori “lontani” con i quali esercitare l’arte dell’incontro, dello scambio, o anche del conflitto nonviolento. Persone che resistono nei flutti e nelle tempeste, come piccoli marinai spaventati, ma capaci di non mollare il timone. Segmenti di povera umanità, come siamo tutti, carichi di limiti, errori e difetti, che però si battono, ogni giorno, seminano idee, pensieri, piccole terapie contro la regressione e l’egoismo. Chi sono? In fondo sono tanti, anche se dispersi, divisi, quasi ammutoliti – e molti di loro non li conosco. In fondo, non è solo a loro che sono grata, è al mio prossimo, al mio simile – al mio fratello – che guardo con gratitudine. Ci dev’essere qualcosa di vero nella dottrina gnostica della “scintilla” che è comunque sopravvissuta alla caduta nella materia, alla fuoruscita dalla perfezione unitaria del pleroma: anche in quell’imperfettissimo impasto di fango e di oscurità, che sono gli esseri umani, una possibilità di salvezza c’è, si tratta di afferrarla, custodirla, nutrirla – come aveva fatto Prometeo, come facevano i nostri più lontani antenati nella loro diuturna “guerre du feu”. No, non siamo destinati, nascendo, alla dannazione (come recita il cristianesimo della Riforma), non è vero che possiamo aspettarci la salvezza soltanto da un atto discrezionale, da una grazia imperscrutabile. Voglio credere, da non credente, in quella divina scintilla e nella nostra possibilità di incontrarne il fuoco. Non è tutta qui, a ben vedere, la differenza tra destra e sinistra? Per la destra, la forza di quella minuscola luce è riservata a pochi – pochi eletti, per soldi, successo, potere, felicità. Per la sinistra, se è tale, ogni persona, quella scintilla, può trovarla dentro di sé e compierne la realizzazione, o provarsi a compierla. Intendiamoci: questa non è, da parte mia, una botta di ottimismo. Non mi riconosco, più di tanto, nella dicotomia ottimisti-pessimisti, progressisti-catastrofisti. So bene che il bipede sapiens è capace delle peggiori efferatezze e delle più incredibili crudeltà (gli animali, anche quelli detti feroci, uccidono per fame e comunque non hanno mai pianificato lo sterminio “scientifico” di qualcuno che aveva il torto di nascere nel popolo o nella religione “sbagliati”), ma so anche che ha in sé potenzialità straordinarie
Non va forse ringraziata Monica Balascuta, badante romena morta a Messina nel tentativo di salvare la “sua” vecchietta? Io le sono grata, sì, non perché è stata un’eroina, pur sfortunata, ma perché è stata capace di un incomparabile scatto di umanità, vincendo ogni pulsione di fuga o di autosalvaguardia. Perché in lei ha prevalso lo sguardo dell’Altro, il desiderio metafisico, come dice Lévinas, in cui la distanza con l’irriducibile eccedenza dell’Altro si annulla fino al punto di “aver l’Altro nella propria pelle” e di produrre una straordinaria unità intercorporea. L’estrema prossimità, non la bontà. La “sostituzione”, sempre nel senso levinasiano, non l’altruismo o il coraggio (che sappiamo, fin dai tempi di don Abbondio, che non sempre «uno se lo può dare»). Senza questo principio ontologico, il nostro “Essere per l’Altro”, oltre ogni primato della coscienza e oltre perfino la conoscenza della verità, non si spiegherebbe la virtù detta del “sacrificio” praticata da santi, mistici, missionari, da militanti rivoluzionari nonché da tante madri, padri, amanti, fratelli – e in ultimo dall’umile lavoratrice Monica Balascuta. Io non la nomino “sacrificio”, questa virtù, ma “arte della fraternità” – il sostantivo della triade della Rivoluzione francese che più mi è caro. E la vedo, intorno a me, nascosta nelle sozzure, nelle ingiustizie, nelle sofferenze, soffocata dalle pretese dell’Io e della sua arrogante coscienza – ma la vedo. Non è un’utopia lontana. Ringrazio perciò tutti coloro che riescono a far prevalere questa divina scintilla nelle loro opere, e nelle loro idee. Ringrazio i tanti che svolgono un lavoro volontario – assistendo chi ne ha bisogno o occupandosi di politica senza perseguire carriere. Ringrazio la Comunità di Sant’Egidio e tutti i sacerdoti capaci di vivere la “Chiesa dei poveri”. Ringrazio tutti coloro che, nel loro lavoro socialmente utile e/o necessario – medici, infermieri, insegnanti, educatori, operatori culturali, amministratori pubblici e privati – mettono l’anima e capacità di devozione. Ringrazio i miei compagni di strada, che ancora non hanno archiviato la voglia di cambiare il mondo e di avviare nuove pazienti intraprese. Ringrazio il volto dell’Altro, tutte le volte che sono capace di guardarlo davvero. A tutti buon 2010.

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